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Paura di partorire un figlio malato: la psicologa spiega perché accade

di Emmanuella Ameruoso - 27.02.2020 Scrivici

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Fonte: Shutterstock
La psicologa spiega dove nasce la paura di partorire un figlio malato e come si può affrontare questo timore

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Paura di partorire un figlio malato

Desiderare un figlio e concepirlo è un passo decisivo nella vita di ogni singola donna. Ogni concepimento mette in atto dei meccanismi inconsci abbastanza complessi e tali da far emergere una serie di paure spesso plausibili per il momento che si vive. Una tra queste è proprio la paura di partorire un figlio malato.

La gravidanza non è solo un periodo di attesa e di trasformazione fisiologica ma anche un evento in cui i processi di elaborazione e rielaborazione di vissuti interiori, in merito ad esperienze pregresse e fantasie generazionali tramandate da madre a figlia, ricompaiono anche se non in maniera consapevole.
Gran parte delle esperienze in termini di gestazione, di filiazione e di fantasie generazionali legate a tale periodo riemergono inconsciamente e con forza tanto da condizionare fortemente lo stato psicologico della futura mamma.

Tale paura non è soltanto legata ad un fattore prettamente realistico (malattie trasmesse geneticamente, età della gestante, etc.) quanto per lo più a eventi che hanno coinvolto i familiari e, più nello specifico, qualcuno molto vicino alla donna: una nonna, una zia, la mamma, un fratello o una sorella. 

"La presenza di un evento traumatico quale un aborto spontaneo o provocato, una morte fetale o una gravidanza extrauterina, come anche delle patologie antecedenti all’evento, può determinare un effetto conturbante" e dar vita ad una paura di un nuovo evento o circostanze che portano a mettere in pericolo la vita del feto (Ameruoso, 2015).

L’episodio doloroso può essere anche legato a esperienze vissute da altre donne (la madre, la nonna o una zia) all’interno delle famiglia stessa o allargata: "la morte di un bambino" o la presenza di una patologia non diagnosticata durante la gestazione che ha poi determinato il parto di un bambino con handicap suscita verosimilmente la paura nella donna gravida di vivere la stessa esperienza  (Ameruoso, 2015).

È per questo che, durante l’attesa, le paure emergono sino a determinare uno stato d’ansia che persiste per tutto il periodo soprattutto in prossimità delle varie ecografie e dei controlli che possono o meno confermare lo stato di salute del feto, nonché al momento del parto nel quale ci sarà piena conferma - o meno - delle stesse.

Perché la paura?

Durante la gravidanza la donna è coinvolta in un lavoro incessante sul piano della fantasia e dell’immaginazione (come sarà, a chi assomiglierà, avrò latte sufficiente per nutrirlo, mangerà, starà bene). Questo processo genera continui pensieri che la pongono dinanzi a diverse domande sulla condizione che lei stessa sta vivendo ma anche - e soprattutto - sullo stato di salute del piccolo.

Inizialmente, cioè nei primi tre o quattro mesi dal concepimento, la presenza dell’embrione non sarà significativamente percepibile se non attraverso una serie di fastidi - per chi li avverte - quali nausea, vomito, bisogno incessante di andare in bagno, attacchi di fame o, al contrario, inappetenza. Successivamente la sua presenza sarà più evidente poiché il corpo comincerà a cambiare in maniera visibile e perché i suoi movimenti nell’utero saranno più tangibili.

E’ quindi durante il primo periodo che tendenzialmente le paure prendono forma generate da mille fantasie che diventano ansie, preoccupazioni e allarmismi.

“Sarà sano il mio bambino?, “ci saranno complicazioni durante il parto?”, “sarà portatore di malattie genetiche?”, “succederà ciò che è successo a..”.

Ebbene tutto ciò risulta estremamente naturale poiché nasce, con il concepimento, un’attenzione particolare verso un periodo della vita (la gravidanza) e verso un esserino, vulnerabile, piccolo e in alcuni casi fragile (soprattutto se nasce prematuramente) e quindi da proteggere. È chiaro che la preoccupazione è manifesta nei confronti di chi è indifeso e non può sopravvivere se non attraverso chi si prende cura di lui, ma se tale inquietudine diventa esagerata, allora bisognerebbe approfondire gli aspetti più intimi della psicologia della gestante.

Quando tali idee diventano ossessive, si manifestano degli aspetti inconsci che riguardano un vissuto più profondo della gestante responsabile sia in termini “biologici” che “morali”: il parto rende visibile e manifesta la propria immagine interiore: un mostro è espressione di una immagine interiore non accettabile, cattiva mentre un figlio con handicap condanna alla dipendenza assoluta.

Il feto, a livello fantasmatico, diviene così “portatore” di una fantasia arcaica, profonda interna che tramite il parto può essere rivelata. È possibile che la sintomatologia ansiosa con tratti di tipo ossessivo possa insorgere in primipare non consapevoli del fatto che la gravidanza e la maternità siano costellate da angosce riferite non solo alla propria identità psicofisica ma anche all’integrità fisica del bambino e che il periodo gestazionale, nonché la maternità, conduce inevitabilmente ad un lungo periodo di dipendenza tra madre e figlio.

Bibliografia

Ameruoso E., 2015, Desiderare la genitorialità. Il mondo interiorizzato nel disturbo dell’infertilità. Edizioni Psiconline

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