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Vittime di mobbing dopo la nascita di un figlio. Cosa fare?

di Damiana Sirago - 20.05.2017 Scrivici

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Come comportarsi in caso di mobbing dopo la nascita di un figlio? L'avvocato ci spiega come difendersi e ci ricorda quali sono i diritti di chi rientra dalla maternità

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Mobbing dopo la nascita di un figlio

Spesso, negli uffici italiani, si consumano in silenzio i drammi di neomamme che, una volta tornate a lavoro, vengono considerate “improduttive” e subiscono demansionamenti, ingiustizie e vessazioni fino a provocarne le dimissioni.

Mobbing dopo la maternità anticipata 

Rientrare a lavoro dopo la maternità è quasi sempre un passo tutt’altro che facile. Oltre alla più che ovvia difficoltà che deriva dal dover conciliare i ritmi della nuova vita da madre con quelli degli impegni professionali, spesso la neo mamma si trova a dover fronteggiare situazioni spiacevoli al suo rientro in ufficio, come, ad esempio, quella di non avere più uno specifico ruolo all’interno dell’organizzazione aziendale. Nonostante la presenza di leggi specifiche, nelle aziende si assiste troppo spesso al cosiddetto fenomeno del mobbing per maternità.

A essere discriminate dopo la nascita di un figlio sono in uguale maniera libere professioniste e lavoratrici dipendenti: avvocati, architetti, segretarie, cameriere, commesse e dirigenti. Secondo le ultime stime dell’Osservatorio Nazionale Mobbing, negli ultimi due anni sono state 350mila le donne discriminate per via della maternità o per aver avanzato la richiesta di conciliare lavoro e vita familiare. Mentre dal 2011 al 2016, sempre in Italia, i casi di mobbing da maternità sono aumentati del 30%. I casi che si trasformano in effettive denunce, però, sono pochissimi.

Rientro dalla maternità e demansionamento 

Spesso il datore di lavoro adotta tutta una serie di comportamenti ed atteggiamenti che portano la donna che rientra dalla maternità a rassegnare le proprie dimissioni. Tra questi comportamenti rientra, nello specifico, anche il demansionamento, vale a dire la non corretta riallocazione della dipendente al suo rientro in azienda, che mira a ridurre l’autostima della donna fino a portarla a rinunciare al posto di lavoro. Quando parliamo di donne/mamme ci riferiamo a professioniste qualificate, che amano il proprio lavoro, ma che dopo la maternità vengono emarginate o demansionate per aver osato domandare orari più compatibili con la loro nuova condizione, per aver legittimamente avanzato la richiesta dei permessi per allattamento o, semplicemente, perché durante la loro assenza il loro ruolo è stato affidato a qualcun altro.

Il Ministero del lavoro, ha chiarito la portata dell’art. 56 D.Lgs. n. 151/2001, sul diritto della lavoratrice al rientro dal congedo di maternità, alla conservazione del posto di lavoro e sul demansionamento della stessa. Ci sono, per fortuna, degli obblighi di legge che tutelano le donne in tal senso e che, se non rispettati, possono costare al datore di lavoro un’accusa per demansionamento e discriminazione. E’ bene precisare che in questi ingiusti casi è estremamente importante non lasciarsi intimorire dai comportamenti scorretti del proprio datore di lavoro e capire quando questi diventano dei veri e propri reati da denunciare per tutelarsi ed evitare che tali vessazioni vengano esercitate anche su altre donne, o comunque su altre persone in generale.

Cambio mansione al rientro della maternità

La lavoratrice può essere spostata ad altro reparto o mansione purchè siano rispettati i criteri seguenti:

  • lo spostamento deve avvenire all’interno della medesima unità produttiva o in altra ubicata nello stesso comune;
  • lo spostamento deve consentire alla lavoratrice di svolgere la medesima mansione che svolgeva in precedenza o una mansione equivalente (ciò significa che non deve essere adibita ad una mansione inferiore).

Diritti di chi rientra dalla maternità 

Oltre alla maternità obbligatoria, le neomamme hanno anche la possibilità di usufruire della maternità facoltativa (o congedo parentale) entro i primi otto anni di vita del bambino. Concluso anche questo periodo di stop dal lavoro, la mamma lavoratrice torna alla sua professione. Al termine dei periodi di congedo, la lavoratrice ha diritto di conservare il posto di lavoro, di rientrare nella stessa unità produttiva in cui era occupata all’inizio del periodo di gravidanza (e di permanervi fino al compimento di un anno di età del bambino) nonché di essere adibita alle mansioni da ultimo svolte o a mansioni equivalenti.

Inoltre durante il primo anno di vita del bambino ha diritto a dei riposi giornalieri per l’allattamento.

In particolare, può assentarsi per due ore, se lavora per sei o più ore, e per un’ora se ha un orario di lavoro più ridotto. Può essere assente, per giusta causa, anche se il bambino si ammala. Se è possibile, si può rientrare al lavoro per gradi, magari cominciando con i primi mesi part-time per poi riprendere a tempo pieno.

Discriminazione e maternità 

La maggior parte dei datori di lavoro sono convinti che il fatto di avere avuto un figlio e, comunque, di essere madre rappresenti un handicap per l'azienda. In una società fortemente maschilista come la nostra la paura del mobbing ha un peso enorme sulle scelte che molte donne si trovano costrette a fare. Il mondo del lavoro in rosa vessa ancora in condizioni di gravi disparità. Disparità tanto evidenti e gravi che spesso una mamma decide di abbandonare il lavoro proprio per l'impossibilità di conciliare il tutto.

Licenziamenti e maternità 

Di solito non è il datore di lavoro a prendere l’iniziativa e a licenziare. La legge, infatti, è dalla parte della donna: non si può mandare via una dipendente incinta o appena rientrata dalla maternità. Quindi sarà l’azienda – se l’obiettivo finale è quello – ad aspettare che sia la lavoratrice stessa, psicologicamente provata, a chiedere le dimissioni. La maggior parte delle neo mamme vittime di mobbing preferisce arrendersi, pur di non continuare estenuanti duelli psicologici. Anche perché, dimostrare il mobbing, non è semplice. L’onere della prova spetta interamente alla lavoratrice. E non è cosa facile, visto che i datori di lavoro sono spesso abbastanza scaltri da non lasciare tracce scritte, come ad esempio e-mail. Tutto si gioca sul piano psicologico. E quasi sempre una delle tecniche più utilizzate per spingere la dipendente ad andarsene è il trasferimento: si chiede a una donna che ha appena avuto un figlio di cambiare città.

Tutto perfettamente legale, visto che il contratto lo prevede. Ma lei, che avrà paura di sconvolgere la propria vita e il proprio equilibrio con un bambino appena nato, dirà di no. Perciò l’errore più comune in cui cadono le lavoratrici è la dimissione.

Come difendersi?

Come già detto il più delle volte la lavoratrice per evitare di subire umiliazioni e di dover intraprendere una causa legale contro il datore di lavoro, rassegna le dimissioni, senza nemmeno provare a lottare per tutelare i propri diritti. Invece, le lavoratrici madri che si trovano nella situazione di “mobbing” non devono rassegnare le dimissioni ma combattere contro il datore di lavoro e cercare di cambiare la situazione facendo valere i propri diritti! In che modo? Rivolgendosi ad un legale e quindi impugnando i provvedimenti datoriali illegittimi (trasferimento di sede, cambiamento di mansioni, ecc). All’impugnazione dei provvedimenti datoriali, se non si riesce a trovare subito un accordo, segue immediatamente un procedimento giudiziale che ha dei tempi abbastanza lunghi. Questo fattore costituisce, purtroppo, uno dei deterrenti per continuare con determinazione la lotta nella difesa dei propri diritti.

Come capire che si è vittime di mobbing 

Solitamente il mobbing si presenta attraverso determinati comportamenti o situazioni, che la vittima è obbligata a sopportare, come:

  • atti discriminatori
  • scherzi indirizzati sempre alla medesima persona
  • demansionamento
  • denigrazione
  • rimproveri frequenti
  • isolamento della vittima

È importante ricordare che il mobbing può essere effettuato sia da parte dei colleghi che da parte del superiore.

Cos'è il mobbing strategico 

Il mobbing strategico è la situazione in cui le azioni vessatorie sono attuate intenzionalmente ed in maniera pianificata da parte della direzione aziendale con la precisa intenzione di estromettere una o più persone dal contesto lavorativo. Il mobbing diventa, insomma, una sorta di politica aziendale. La maternità continua a rimanere per le donne italiane un ostacolo al lavoro e alla carriera. Possiamo dirlo: “L’Italia non è un paese per mamme!” Nonostante ciò è bene consigliare, alle mamme che si trovano nella situazione di dover subire vessazioni, di ribellarsi e di rivolgersi subito ad un esperto specializzato in diritto del lavoro per essere assistite nella gestione della situazione fin dall’inizio e per andare avanti in una battaglia che, speriamo, prima o poi porterà la fine delle discriminazioni nel mondo del lavoro e non solo

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