Dare etichette ai bambini
Spesso con i bambini si cade nella tentazione di "etichettarli" nei loro comportamenti e nelle loro caratteristiche, e ci si ritrova a dire nei confronti del proprio figlio o di quello altrui: "lui è così". Insomma ci ritroviamo a dare etichette ai bambini.
E' socievole, è timido, è lento, è veloce, è pigro, è sportivo, è volenteroso, è lavativo, è insicuro, è impertinente, è furbo, è ingenuo... E così volente o nolente il bambino si trova appiccicati una serie di "bollini" che gli altri gli mettono addosso.
Questa operazione, che gli adulti più o meno consapevolmente compiono, porta con sè delle conseguenze, alcune positive, ma altre decisamente negative.
Quali sono benefici e rischi nell'"etichettare" i bambini?

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Benefici
Dare un'"etichetta" ai bambini e ai loro comportamenti può essere un primo passo per individuare un tratto saliente del bambino e può quindi aprire la strada alla comprensione delle sue caratteristiche: rappresenta in un certo senso un riassunto veloce dei suoi attributi principali.
A volte definire le sue peculiarità permette anche di prevedere quali potrebbero essere le sue maggiori difficoltà e quindi dà la possibilità di sostenerlo laddove è più fragile: in questo senso l'etichetta apre la strada ad un intervento educativo e permette all'adulto di avere un punto di partenza da cui iniziare per aiutare il piccolo.
In particolare quando si è di fronte ad una disabilità l'etichetta, in questo caso diagnostica, dà modo di fare chiarezza su ciò che ha il bambino permettendo a tutti gli adulti che lo circondano di avere bene chiaro in che cosa consiste la difficoltà del ragazzo.
Al contrario un'etichetta "positiva" fa emergere i punti di forza del bambino e quindi lo gratifica aumentandone l'autostima e la stima altrui: alcune definizioni sono delle vere e proprie lodi che il bambino accoglie di buon grado.
Inoltre l'etichetta può avere un' ulteriore importante funzione positiva per il ragazzo stesso: grazie alle varie "definizioni" che gli altri danno di lui il bambino impara a costruirsi un'immagine di sè e a delineare la propria identità; esse vanno a costituire il puzzle del sè, in cui il bambino piano piano inizia a riconoscersi.
Rischi
Il rischio più grosso è che queste etichette sono tendenzialmente fisse e stabili: esse infatti non tengono conto del fatto che il ragazzo è in continua evoluzione e che le sue caratteristiche sono con lui soggette a un continuo cambiamento anche e soprattutto perchè non dipendono esclusivamente da come è il bambino ma anche dai fattori ambientali che lo circondano.
Pertanto esse diventano stigmatizzanti nel momento in cui incarnano un giudizio che vuole essere definitivo su un ragazzo e che non lascia aperta la porta ad uno spiraglio di miglioramento. Si parla proprio di una profezia che si autoavvera: definire un ragazzo in un determinato modo può portarlo a credere di essere inevitabilmente così senza la fiducia in un cambiamento o in un miglioramento; l'etichetta più pericolosa in questo senso è il "non ce la fa": il ragazzo se ne convince e non si attiva più ma si adagia sull'insuccesso.
Nel caso della disabilità l'etichetta diagnostica invece può essere un'arma a doppio taglio nel momento in cui non diventa un punto di partenza per comprendere realmente chi è il bambino ma viene considerata di per sè una descrizione esaustiva.
Le etichette in generale diventano infatti limitanti perchè spesso inducono le persone che circondano i ragazzi a cui sono "appiccicate" a fermarvici superficialmente e a non spingersi alla ricerca delle peculiarità e delle differenze individuali che si nascondono dietro alla medesima definizione.
In realtà è importante rendersi conto che come non esiste un ragazzo uguale ad un altro non esiste nessuna etichetta in grado di comprendere la complessità di ciascuno: dare etichette può essere istintivo, comodo, immediato, per certi aspetti utile; ma se si dimentica che dietro ad ogni etichetta c'è una persona unica e insostituibile in continua evoluzione non può che essere fuorviante e pericoloso; bisogna pertanto essere consapevoli del rischio che corriamo nei confronti dei più piccoli quando li etichettiamo e pretendiamo di "definirli" una volta per tutte.