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Le ingiunzioni che (non) aiutano a crescere

di Emmanuella Ameruoso - 06.02.2015 Scrivici

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Tante volte i genitori sgridano i propri figli. Il che va anche bene, ma alcune espressioni stimolano il senso di colpa che, strutturandosi nell’infanzia, può divenire in età adulta una problematica comportamentale

Senso di colpa nei bambini

Il bambino, quando non è completamente libero di esprimersi, verrà ostacolato nella sua spontaneità. La punizione nello stile educativo, è considerata al pari di una gratificazione, elemento quest’ultimo che contraddistingue la riuscita del bambino nella sua vita. 

Ma in che modo nasce il senso di colpa?

Berne, uno psicoanalista transazionale, introduce il concetto di ingiunzione considerandola come una modalità di richiesta genitoriale su come il bambino deve comportarsi in certe situazioni e quindi nella vita. Le ingiunzioni più comuni sono: non esistere, non essere bambino, non diventare grande, non riuscire, non avere legami, non amare e non essere amabile, non essere sano.

  • La prima (non esistere)

indica proprio il senso della vita che si esprime col “vorrei che tu non fossi nato” o “ti ammazzerei per questo”, “ho sofferto per farti nascere e ancora soffro perché mi fai arrabbiare”. Il messaggio non è solo verbale, ma si esprime anche attraverso i gesti, gli atteggiamenti, con i quali il genitore “ignora” palesemente la presenza del piccolo rendendolo anche dipendente dai suoi riconoscimenti e dalle sue richieste di attenzioni e di affetto.

  • Non essere bambino

i genitori minacciati da un comportamento infantile, e quindi dal loro stesso figlio, richiedono a quest’ultimo di essere adulto, responsabile, maturo. Non avendo avuto la possibilità di essere bambini e quindi non riconoscono nel gioco, nel divertimento, nella spensieratezza un comportamento legato alla crescita, cercano inconsciamente di impedire questo processo nel proprio bimbo.

  • Di contro, il “non crescere”

significa “non abbandonarmi”, non lasciarmi per diventare una persona adulta, ma resta piccolo così “potrai badare a me”, “potrai stare con me”. È tipico di chi resta a casa dei genitori per badare a loro, nonostante l’età adulta. 

  • Non riuscire

In questa ingiunzione c’è davvero tanto. Il non realizzare “ciò che io non sono stato in grado di fare”,” non essere migliore di ciò che sono stato io”.

Non aver avuto la possibilità economica, per es., di conseguire gli studi può diventare un problema per il figlio, il quale avendone l’opportunità avrà difficoltà a farlo poiché avvertirà l’amaro risentimento che il genitore porta dentro di sé per non essere riuscito a farlo.

  • Non essere te stesso

non “essere del sesso che sei”, “assomigli tutto a tuo padre” o “a tua madre”, quindi sii qualcun altro o qualcun’altra..ma non te stesso!

  • Il “non (non fare niente)”

propone il senso del non intraprendere nessuna azione che possa cambiare lo status quo: “va’ a vedere cosa sta facendo tua sorella e dille di smettere”. (Stewart, Joines, 2001).

  • Non far parte

“mio figlio è un bambino timido”, “è diverso dagli altri”, “è difficile”. È un riproporre attraverso il figlio la propria incapacità di stabilire delle relazioni. E così il piccolo vivrà la sua solitudine, la sua incapacità a strutturare rapporti significativi sul piano affettivo e sociale.

  • Non entrare in intimità.

In questo contesto difficilmente c’è una vicinanza fisica tra genitori o tra adulti e figli, per cui il rapporto affettivo è fatto prevalentemente di verbalizzazioni e pochi contatti.“Non essere in intimità” significa “non fidarti” e questo induce a diventare un adulto con serie difficoltà a trovare relazioni affettive significative e a stabilire un’intimità nel rapporto che avrà le stesse caratteristiche di quello da cui ha derivato il suo modello comportamentale.

È importante, in questi frangenti esprimere la propria emotività, i bisogni e le necessità ponendo fiducia nell’altro. Un fiducia che potrà accogliere i dubbi, i dolori, le incertezze come anche la gioia e la condivisione reciproca per permettere un arricchimento emotivo, soprattutto tra genitore e figlio.

  • Non stare bene (non essere sano di mente)

È possibile che due genitori dediti al lavoro abbiano difficoltà a dedicarsi completamente alla famiglia e ai figli, quindi, nel contesto della malattia questi ultimi riescono ad ottenere le attenzioni dovute.

“Per essere coccolata e per ottenere l’interesse dei miei, devo essere malata”. “E’ un bambino cagionevole di salute” indica la necessità di considerarlo “malato” poiché diversamente sarebbe meno importante sul piano affettivo.

  • Non pensare, non sentire

sono altri due modi per sminuire i figli nella loro mera esistenza: sminuire continuamente ciò che pensano, attraverso battute sarcastiche o espressioni non verbali induce il bambino a riflettere sul reale valore delle proprie affermazioni entrando in confusione con quello che realmente pensa e desidera esprimere “Non pensare quello che tu pensi, pensa solo quello che penso io”.

Lo stesso per quanto concerne le emozioni, il non sentire è proprio riferito alla tendenza a reprimerle e a non manifestarle “io ho fame, che vuoi mangiare”. Non sentire sensazioni, emozioni (non provare tristezza o paura), non percepire e non esprimere. “Non sentire quello che senti tu, ma senti ciò che sento io” .

Queste situazioni tipiche delle personalità psicotiche tendono a tarpare le ali a qualsiasi tentativo del piccolo di diventare autonomo e indipendente dalla relazione con la madre.

Cosa è possibile fare?

Berne parla di carezze: le coccole che compensano qualsiasi tipo di disagio si presenti. Sono un riconoscimento dell’altra persona a prescindere dal contatto fisico. Le carezze positive si riferiscono a ciò che la persona è: “E’ bello vederti”, “Ti voglio bene” mentre al contrario tutto ciò che si esprime negativamente come “non ti sopporto”, “sei un incapace” sono un modo per negare l’esistenza dell’altro. Le carezze come gratificazioni donano all’altro, e soprattutto al bambino durante la crescita, una sensazione di benessere, favorendo una crescita autonoma.

DARE carezze non significa necessariamente limitarsi nell’offrirle o aspettarsi in cambio un effettivo riscontro, quanto piuttosto esprimere il proprio desiderio di trasmettere emozioni, sentimenti e benessere. PRENDERE le carezze a volte risulta difficile per via della diffidenza che si cela dietro un gesto apparentemente spontaneo.

Ma il poterlo fare liberamente implica una scelta ed un individuazione dei propri bisogni.

Anche CHIEDERE alla fine è piuttosto complesso, ma in tale comportamento esiste la capacità di identificare i propri bisogni, distinguerli ed esprimerli. RIFIUTARE LE CAREZZE nel senso di riceverle o di darle se non si vuole. E qui ci si riferisce fondamentalmente a tanti genitori che chiedono ai loro piccoli di salutare con gesti affettuosi anche persone estranee nonostante ci sia un rifiuto di base. Le carezze, infatti, assumono una consistenza ed un valore differente quando si esprimono con giusta convinzione e desiderio.

Il rispetto dell’individualità del bambino è il primo passo per riconoscere la sua persona e aiutarlo ad essere come desidera.

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