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Il calcio è davvero lo sport giusto?

di Silvia Casini - 06.07.2018 Scrivici

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Il Prof. Gabriele Traverso, Psicologo, psicoterapeuta ed esperto in sessuologia, ci aiuta a capire se il calcio è davvero lo sport giusto per nostro figlio

In questo articolo

Come capire se il calcio è lo sport giusto

Fin dall’infanzia, i bambini fantasticano di diventare dei grandi giocatori di calcio, ma è davvero lo sport giusto per i nostri figli? Qual è la relazione tra sport, psicologia ed aggressività? Ce ne parla il Prof. Gabriele Traverso, Psicologo, psicoterapeuta ed esperto in sessuologia. Docente di Scienze sessuologiche alla Scuola Superiore di sessuologia clinica di Torino. Socio A.M.I. - Associazione Medici Italiani.

Calcio: ma fa davvero per lui?

Non c’è dubbio che il calcio rappresenti uno dei mondi più affascinanti per le giovani generazioni che tendono a praticare uno sport. Nella scelta c’è tutto il bene e tutto il male di una scelta sportiva (anche se i fattori positivi sono certamente maggiori di quelli negativi). In prima istanza, è ormai certo che la pratica sportiva allontana molte delle tentazioni legate all’uso o all’abuso di sostanze alcoliche o stupefacenti, regolarizza alcuni degli eccessi nei quali sovente cadono gli adolescenti, stimola uno stile di vita più sano e legato all’integrità fisica per raggiungere e mantenere alte performance sportive.

Tra gli elementi negativi, vanno annoverati certamente obiettivi troppo alti per essere raggiunti, la consapevolezza che forse gli intenti non sono pari alla “classe” di cui si è dotati, e così via: tutti gli elementi, insomma, che possono diventare fonte di frustrazioni a volte difficili da riorganizzare.

Psicologicamente parlando, la pratica sportiva (e non solo quella agonistica) necessita di alcuni prerequisiti di base. Eccoli in rapida sintesi.

  • Motivazione: è difficile emergere in uno sport che rappresenta una “seconda scelta”. E’ più facile essere un buon giocatore quanto più ci sono motivazioni diversificate, legate al piacere di praticare proprio “quello sport”, al grado di sintonia con i compagni, all’assunzione di precise responsabilità nell’ottenere il risultato. Solo con adeguate motivazioni è possibile sopportare i lunghi allenamenti, i cali di forma, il lavoro non strettamente finalizzato al gioco in sé e per sé
  • Capacità di lavorare in gruppo. A differenza degli sport individuali, il calcio, come molti dei giochi di squadra, richiede una adeguata autostima, rispetto per i ruoli, adesione alle direttive dell’allenatore, capacità di sopportare i normali episodi del gioco (sostituzioni, infortuni, scarsa vena in particolari momenti o periodi). E’ vero che una sufficiente consapevolezza porta giocatori anche molto giovani ad affermare sinceramente le proprie difficoltà, ma esempi illustri mostrano (anche se per motivi diversi) che cedere il passo non è cosa semplice.
  • La convinzione e la consapevolezza dei propri mezzi. Nel calcio più che in altri sport, si evidenzia la necessità di poter avere in squadra dei fuoriclasse ma anche dei “gregari” (molte note squadre si sono trovate in difficoltà a causa della presenza di troppi “primi attori”). Non è un problema legato solo al calcio professionistico: è anche vero che la ricerca del giocatore di classe (o decisamente fuoriclasse) porta molti osservatori a privilegiare chi si distingue particolarmente in un determinato ruolo, ma conoscere bene i propri limiti aiuta a trovare il proprio posto senza enfasi fuori luogo o aspettative superiori agli obiettivi concretamente raggiungibili.
  • La consapevolezza nei propri mezzi. E’ necessario che il giovane sia aiutato a capire le sue vere attitudini, che sia preparato ad effettuare delle scelte, che sappia distinguere ciò che gli piace da ciò in cui riesce. E per questi obiettivi allenatori, società, osservatori possono fare molto: ma anche molti genitori dovrebbero saper accettare e anzi aiutare le scelte, a volte non troppo condivise, di chi ne sa certamente di più.

Sport e aggressività

Iniziamo proprio da una delle caratteristiche più importanti, ma anche più pericolose degli sport di contatto e cioè l’aggressività.

Vale la pena precisare che aggressività e aggressione sono due termini ben diversi tra di loro: il primo indica un aspetto caratteriale, motivazionale, in altre parole “sano” per il raggiungimento di un obiettivo che implica sconfiggere un avversario sportivo. Il secondo è un comportamento tendente ad aggredire, limitare e annientare l’oggetto dell’aggressione: in questo caso, l’avversario. E va da sé che si parla di aggressione fisica o psicologica.

  • Qual’è il rapporto tra motivazione e aggressività?

L’aggressività costituisce un “additivo interno” dell’individuo che determina il suo comportamento in funzione di uno scopo: per questa ragione, un indice adattivo di aggressività è essenziale per essere adeguatamente motivati e per raggiungere l’obiettivo che ci si prefigge (la vittoria, ad esempio). La motivazione è al livello immediatamente superiore: rappresenta l’insieme degli aspetti cognitivi, affettivi, ideali, che spingono verso un obiettivo. In sostanza, la motivazione è la spinta interiore, l’aggressività ne può essere uno strumento.

Parlando di aggressività ”sana” non può non venire in mente ciò che nel calcio è quotidianamente presente: la differenza, ad esempio, tra la marcatura di Claudio Gentile a Maradona durante i campionati mondiali di calcio del 1982 e il fallo da tergo nei primi minuti di partita che anche in questo campionato abbiamo visto più volte sui nostri campi di calcio.

Nel primo caso l’aggressività era molto fisica (nel senso di una marcatura asfissiante) e psicologica (far sentire all’avversario che nulla sarebbe stato concesso); nel secondo caso è una aggressività strumentale e intimidatoria, che può anche rasentare l’aggressione.

Il problema principale che allenatori e psicologi dello sport devono affrontare è la gestione dell’aggressività: il modo, cioè, attraverso il quale è possibile indirizzare un sano atteggiamento aggressivo senza eccedere nei propri comportamenti. Ricordo ciò che moltissimi anni fa era stato affermato a proposito degli incontri di boxe: un pugile molto noto sottolineava ai suoi allievi in palestra che se non si odiava l’avversario sarebbe stato molto difficile vincere il match.

Potremmo trasferire questa ipotesi ad una squadra di calcio, intendendo in tal modo che surclassare l’avversario (sia fisicamente, sia psicologicamente) potrebbe essere un buon modo per vincere le partite.

Forse è così, ma ci sono sicuramente alcuni grossi dubbi.

  1. Impostare la propria performance sull’annientamento dell’avversario è molto pericoloso sia per gli eccessi nel comportamento aggressivo, sia perché nelle prove di forza si può anche soccombere (avversario più aggressivo, fisicamente più prestante, o perché è dotato di un maggiore equilibrio interiore). In quest’ultimo caso, gli sarà facile giocare in modo provocatorio fino a far saltare i filtri al comportamento aggressivo e dando origine a reazioni spropositate, che possono causare danni agli altri, ma anche a sé (ammonizioni, espulsioni, l’essere causa di gravi danni fisici all’avversario).
  2. Vincere non vuol dire necessariamente umiliare. Una partita vinta per 3-0 o 7-0 è pur sempre una partita da 3 punti acquisiti, con la differenza che una sconfitta ci sta, una umiliazione fa attendere prima o poi il momento di un analogo riscatto o di una “vendetta” sportiva, nella quale si può passare facilmente dal ruolo di umiliatori a quello di umiliati.
  3. Nel calcio, la performance riguarda la squadra. Può quindi accadere che l’ipotesi di odiare gli avversari non sia così condivisa e che la tensione agonistica possa rapidamente scemare.

Diverso è il caso in cui, invece, l’aggressività viene incanalata nella concentrazione agonistica, nella determinazione, nella spinta verso una vittoria che raggiunga l’obiettivo, senza distruggere psicologicamente l’avversario. In questo caso, l’aggressività rappresenterà davvero una dimensione molto determinata, ma sapientemente gestita
 

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