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Licenziamento intimato durante la maternità, cosa fare?

di Damiana Sirago - 28.06.2017 Scrivici

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Licenziamento durante la gravidanza cosa fare? L'avvocato risponde ad una pianetina che ha ricevuto una lettera di licenziamento dopo aver comunicato di essere incinta

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Licenziamento durante la gravidanza cosa fare?

Maternità e lavoro, purtroppo, non sempre vanno d'accordo ed è frequente assistere ancora a casi di mobbing o licenziamento di donne che hanno comunicato la gravidanza al proprio datore di lavoro. Di recente una pianetina ci ha raccontato la sua storia, chiedendo un parere al nostro avvocato.

Sono incinta ma ho una minaccia d'aborto, così questa settimana mi sono presa malattia al lavoro. L'altro giorno ho comunicato al mio datore di lavoro che sono incinta e oggi mi è arrivata a casa la lettera di licenziamento e l'hanno datata una settimana fa, giustificando il licenziamento con una ristrutturazione organizzativa. Cosa posso fare dal punto di vista legale?

Innanzitutto è bene precisare che la legge tutela le lavoratrici contro i licenziamenti intimati durante la maternità al fine di proteggere la funzione familiare della donna. Pertanto è VIETATO il licenziamento della lavoratrice dall’inizio del periodo di gestazione fino al compimento di un anno di età del bambino. Lo stabilisce il D.Lgs 151 del 2001, all’art. 54, il quale mira ad assicurare la tutela fisica ed economica delle lavoratrici madri. 

Il divieto di licenziamento è legato all’esistenza oggettiva dello stato di gravidanza: di conseguenza, esso vige anche se il datore di lavoro non ne era a conoscenza. In ogni caso, la lavoratrice, per far valere i propri diritti, dovrà presentare al titolare una idonea certificazione dalla quale risulti l’esistenza, al momento dell’intimazione del licenziamento, delle condizioni che lo vietavano. Eccezionalmente è consentito il licenziamento della lavoratrice incinta solo nei seguenti casi:

  • o di colpa grave della lavoratrice, che di fatto rientri negli estremi della cosiddetta “giusta causa” di risoluzione del rapporto di lavoro (gli esempi classici sono quelli del furto all’interno dell’azienda, del danneggiamento volontario di macchinari o del materiale di lavoro o dell’aver dato luogo a una rissa nei locali aziendali: in sostanza, un fatto grave che non consenta la prosecuzione, anche solamente provvisoria, del rapporto);
  • o di cessazione dell’attività dell’azienda alla quale è addetta la lavoratrice;
  • o di ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o di risoluzione del rapporto di lavoro per scadenza del termine (quindi nei contratti a tempo determinato);
  • o di esito negativo del periodo di prova: in questo caso, tuttavia, se lo stato di gravidanza è noto, la lavoratrice avrà diritto ad ottenere motivazioni e spiegazioni esaustive sulle cause del giudizio negativo, al fine di escludere con ogni ragionevole certezza che la risoluzione del rapporto di lavoro sia stata in realtà determinata dalla condizione della donna.

Cosa succede se, nonostante l’esistenza del divieto, il licenziamento viene comunque intimato?

Il comma 5 dell’art.

54 stabilisce che il licenziamento intimato nel periodo in cui vige il divieto deve considerarsi NULLO. Al di fuori delle ipotesi eccezionali indicate dal terzo comma dell’art. 54 del decreto legislativo 151/2001, il licenziamento intimato nel periodo di maternità è nullo e la lavoratrice ha diritto alle tutele previste dai primi tre commi dell’art. 18 della legge 300/1970, come modificati dalla legge 92/2012 – norme che si applicano alle lavoratrici assunte prima del 7 marzo 2015 – e dall’art. 2 del decreto legislativo 23/2015 (decreto attuativo del c.d. Jobs act, contenente la disciplina del contratto a tutele crescenti) – norma che invece disciplina le conseguenze sanzionatorie dei licenziamenti nulli comminati alle lavoratrici assunte dal 7 marzo 2015 in avanti.

Questo significa che, in caso di accertamento di un licenziamento discriminatorio, oltre alla reintegrazione nel posto di lavoro, alla lavoratrice licenziata spettano per intero tutte le retribuzioni maturate in forza del rapporto di lavoro che, per la legge, di fatto non si è mai interrotto (art. 18 Statuto dei Lavoratori). Quindi nel caso in esame, consiglio di non esitare a rivolgersi ad un legale di fiducia, che saprà consigliare per il meglio.

Purtroppo capita molto spesso che le donne in stato interessante vengano licenziate. C’è da dire che anche quando una lavoratrice madre sceglie di impugnare un licenziamento, rivolgendosi ad un legale, comunque la strada non è in discesa. La discriminazione sul lavoro per le donne che restano incinte è sempre dietro l'angolo. E’ prassi, ormai, che, di fronte a una donna incinta, il datore di lavoro sarà convinto della non completa disponibilità della lavoratrice, che potrebbe essere distratta da problemi legati al bambino: malattia, affidamento, assenza di servizi sociali alternativi. Dal momento che la donna comincia la maternità, inizia a contare meno su di lei.

Licenziamento (o demansionamento) camuffati da ristrutturazione aziendale (ufficialmente perché "c'è la crisi") e anche mobbing più o meno pesante sono situazioni molto diffuse.

Il mobbing è, nell'accezione più comune in Italia, un insieme di comportamenti violenti (abusi psicologici, vessazioni, demansionamento, emarginazione, umiliazioni, licenziamento, etc.) perpetrati da parte di superiori e/o colleghi nei confronti di un lavoratore, prolungato nel tempo e lesivo della dignità personale e professionale nonché della salute psicofisica dello stesso.

Leggi per tutelare lavoratrici madri

Nonostante ciò, in Italia esistono leggi volte alla tutela delle lavoratrici madri:

  • la legge 30 dicembre 1971 n° 1204 e il relativo regolamento di attuazione DPR 25/11/76 costituiscono il fondamento giuridico di tutela. Sono tutelate coloro che svolgono una attività alle dipendenze di un datore di lavoro privato o pubblico, più in dettaglio, le dipendenti delle varie amministrazioni dello Stato, della Regione, della Provincia o dei Comuni, le dipendenti di datori di lavoro privati, (aziende, artigiani, commercianti, industrie); le dipendenti di società cooperative, le apprendiste, le lavoratrici agricole.
  • La successiva legge 53/2000 denominata "Disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi della città" - modifica la normativa (legge 1204/71) sulla tutela della maternità, ampliandone ed estendendone le norme anche al padre lavoratore.
  • Le disposizioni della legge 1204/71 si applicano a tutte le lavoratrici madri, e con particolarità diverse alle apprendiste, alle colf e alle lavoratrici a domicilio. Le lavoratrici autonome, che hanno norme particolari, sono state inserite nella legge 53/2000 unicamente per l'astensione facoltativa di 3 mesi.
  • Per le lavoratrici del pubblico impiego, tutti i contratti contengono appositi articoli dedicati alla maternità che stabiliscono condizioni di miglior favore rispetto a quelle contenute sia nella legge 1204/71 che nella nuova legge, soprattutto per quanto attiene alla misura dell'indennità economica e ai riposi e permessi.
  • Inoltre, il D.Lgs. n. 151/2001 - “Testo unico a tutela della maternità e paternità” contiene una normativa che disciplina i congedi, i riposi, i permessi e la tutela delle lavoratrici e dei lavoratori connessi alla maternità e paternità, prevedendo anche misure preventive e protettive per la salute e la sicurezza delle lavoratrici in gravidanza e dopo il parto. In conclusione, il mio consiglio è di impugnare la lettera di licenziamento rivolgendosi ad un legale di fiducia (esperto in diritto del lavoro) che valuterà la fattispecie concreta e l’aiuterà di certo a lottare per far valere i diritti!
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