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Il figlio dell’altra, al cinema dal 14 marzo

di Barbara Leone - 25.02.2013 Scrivici

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Cosa accade se si scopre che quello cresciuto come un figlio è in realtà il figlio di un'altra donna ed è stato scambiato in culla al momento della nascita? In un film la risposta

Il 14 marzo arriva nei cinema italiani il film Il figlio dell’altra, diretto da Lorraine Lévy, distribuito in Italia da Teodora Film e Spazio Cinema e interpretato da Emmanuelle Devos, Pascal Elbé, Jules Sitruk e Mehdi Dehbi. Un film che racconta il confronto tra due mamme che scoprono che i loro figli sono stati scambiati nella culla.



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La trama del film
Durante la visita per il servizio di leva nell’esercito israeliano, Joseph scopre di non essere il figlio biologico dei suoi genitori, poiché appena nato è stato scambiato per errore con Yacine, palestinese dei territori occupati della Cisgiordania. La rivelazione getta lo scompiglio tra le due famiglie, costringendo ognuno a interrogarsi sulle rispettive identità e convinzioni, nonché sul senso dell’ostilità che continua a dividere i due popoli.

Un’opera emozionante che affronta temi di drammatica attualità cercando le risposte nel cuore della gente comune e affidando le speranze per il futuro alle donne e alle nuove generazioni. Nel cast eccezionale spicca Emmanuelle Devos (Sulle mie labbra, Coco avant Chanel), una delle maggiori interpreti francesi di oggi. Il film è stato presentato fuori concorso al 30° Torino Film Festival.







Così lo descrive la regista, Lorraine Lévy: “Nel film, i padri si lasciano sopraffare dalla scoperta della verità sui propri figli, per loro insopportabile. Preferiscono fuggire che affrontarla. La sofferenza li paralizza. Le madri, invece, riescono presto a chiarirsi tra di loro, cosa che naturalmente non esclude la sofferenza. Il fatto è che le due donne sono capaci di comprendere alcune cose fondamentali: capiscono che i figli che hanno allevato continuano a essere i loro figli; che ora c’è un altro figlio per ciascuna di loro e che non possono ignorarlo, né rifiutarsi di conoscerlo e di imparare ad amarlo; che se occorre tendere una mano, bisogna farlo al più presto, convincendo gli uomini che non esiste alternativa possibile. Il mio film dice che la donna rappresenta il futuro dell’uomo e che quando le donne si alleano possono spingere gli uomini a essere migliori”.


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La regista racconta anche che quando la produttrice Virginie Lacombe le ha mandato la sceneggiatura, ha pensato che era la prima volta che riceveva un progetto che la colpiva così profondamente a livello emotivo. Ed era un film in sintonia con temi che le sono molto cari: "qual è il posto che occupiamo nella nostra vita e in quella degli altri, il nostro rapporto con l’infanzia, l’essere genitori".

La famiglia è un microcosmo da cui trae origine ciò che siamo. Ma cos’è un bambino? E cos’è un adulto? Si può scegliere di restare l’uno o diventare l’altro? Come dice Kenneth Branagh: “Un adulto è solo un bambino che ha dei debiti”. Nel film, Yacine sta per lasciare la famiglia per proseguire gli studi in Francia: è proiettato in una realtà che l’obbliga a essere un uomo. Joseph invece, che vive in un ambiente familiare superprotetto, è rimasto un bambino. E questa differenza salta agli occhi vedendo il film.



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La regista racconta anche quando hanno girato una scena del film ai piedi del muro che divide Israele e Palestina: "Abbiamo girato la scena notturna con Pascal Elbé che va a piedi alla ricerca del figlio. Erano le due del mattino e le luci e il rumore della troupe attiravano l’attenzione, al punto che abbiamo notato dei ragazzini palestinesi che erano riusciti a salire fino in cima al muro e, non so come, si tenevano in equilibrio per vedere cosa succedeva. Io ero impallidita: un muro ne richiama altri, inevitabilmente, e mi venivano alla mente le immagini del muro di Berlino, o, ancora più violente, quelle del Ghetto di Varsavia… Poi è arrivata la polizia israeliana e le riprese si sono di nuovo interrotte per i controlli… A quel punto mi sono chiesta dov’era il film: in quello che stavamo vivendo o in quello che stavamo raccontando? Sicuramente in entrambi".

Josef e Yacine incarnano la speranza delle nuove generazioni. I giovani, da entrambe le parti del muro, non nutrono sentimenti di odio, ma aspirano alla vita normale degli uomini liberi. Per questo nella mente della regista c'era il desiderio di fare un film sull’apertura e la speranza, perché anche se il cinema non può cambiare il mondo, il suo potere di condivisione, di scambio, di comunicazione è molto forte.

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