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Parlare ai bambini in 'mammese'

di Isabella Ricci - 11.03.2016 Scrivici

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Il mammese o motherese , anche noto come baby-talk, è il peculiare modo in cui gli adulti adattano il proprio linguaggio, sia dal punto di vista degli aspetti qualitativi che quantitativi, quando parlano con un bambino piccolo

Il mammese

Con quest’espressione si fa riferimento al cosiddetto mammese o motherese , anche noto come baby-talk, cioè il peculiare modo in cui gli adulti adattano il proprio linguaggio, sia dal punto di vista degli aspetti qualitativi che quantitativi, quando parlano con un bambino piccolo (tra i diciotto e i trentasei mesi di età).

Per aspetti qualitativi e quantitativi si fa riferimento rispettivamente alle caratteristiche prosodiche del linguaggio, cioè ad alcuni aspetti paralinguistici, come il tono o la velocità della produzione, mentre per aspetti quantitativi si fa direttamente riferimento agli aspetti lessicali e sintattici.

In sostanza, quando un adulto parla con un bambino piccolo, soprattutto all’interno di un’interazione diretta o faccia a faccia, tende spontaneamente ad utilizzare una versione semplificata e particolare della propria lingua madre: si esprime cioè con un tono di voce generalmente più elevato rispetto a quando si esprime con altri interlocutori, soprattutto nella parte finale delle frasi, con un ritmo più lento e fluente all’interno del quale le parole sono spesso ripetute e pronunciate in maniera più chiara, facendo un numero più consistente di pause, semplificando alcune parole e frasi. Insieme a questi aspetti linguistici e paralinguistici inoltre sembra che questo tipo di comunicazione sia inoltre accompagnata da un aspetto affettivo: per esempio l’elevazione del tono della voce è contemporanea al lodare un comportamento del bambino, come quando una mamma dice al proprio bambino –Bravoooo!!!- e il bambino vocalizza o sorride.

Daniel Stern, uno psicoanalista che ha saputo conciliare il bambino clinico, ovvero quello ricostruito dalla Psicoanalisi, con il bambino osservato, della Psicologia dello Sviluppo ha parlato di “affetti vitali” riferendosi al tono edonico che caratterizza le azioni del genitore, che trasmettono la qualità affettiva dell’esperienza condivisa. Nei momenti di interazione quotidiana tra madre e bambino vi sarebbe cioè una compartecipazione degli affetti, chiamata “sintonizzazione affettiva”, che sarebbe mediata anche da questi aspetti del paralinguaggio.

Dal punto di vista quantitativo il linguaggio madrese utilizza frequentemente diminutivi, vezzeggiativi, suoni onomatopeici, parole semplificate, come ad esempio “bua” al posto di male, “ciccia” al posto di carne, “ninna” invece di dormire. Inoltre può essere che la madre parli di sè o del bambino non in prima o seconda persona, ma dicendo ad esempio “adesso mamma fa questo” oppure “Ora Gabriellino fa la pappa”, oppure è frequente la sostituzione degli aggettivi e dei pronomi possessivi mio/tuo con “di mamma/di Gabriellino”.

E’ stato riscontrato che anche quando un bambino piccolo, di dieci anni ad esempio, parla con un bambino di due o tre anni mette in atto lo stesso tipo di semplificazioni della lingua. Sembra pertanto che questo processo sia finalizzato a migliorare l’efficacia della comunicazione tramite un adattamento volontario di un emittente nei confronti del ricevente. Inoltre è possibile che questa semplificazione del linguaggio serva a costituire un contesto sociale di facilitazione per l’apprendimento della lingua da parte del bambino.

Infatti questo fenomeno del baby talk sembra essere riscontrabile in diverse culture e in parte potrebbe illuminare un mistero sul quale gli studiosi non hanno ancora raggiunto una spiegazione unitaria e cioè su come possa un bambino piccolo, in un lasso di tempo relativamente breve (5-6 anni) acquisire e padroneggiare con correttezza un sistema complesso come quello di una lingua

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